DANTEDÌ: Viterbo nei versi di Dante. Paesaggio, monumenti e personaggi storici viterbesi nelle citazioni del Sommo Poema. Descrizioni e aggiornamenti sulle tradizionali identificazioni dei luoghi -25 marzo 2020 -

25/03/2020

XIV Canto Inferno_il Bulicame
XIV Canto Inferno_il Bulicame

Viterbo nei versi di Dante

Paesaggio, monumenti e personaggi storici viterbesi

nelle citazioni del Sommo Poema

Descrizioni e aggiornamenti sulle tradizionali identificazioni dei luoghi

-        25 marzo 2020 -

 

In occasione del Dantedì la Soprintendenza Archeologia, belle arti e paesaggio per l’area metropolitana di Roma, la provincia di Viterbo e l’Etruria meridionale aveva programmato, in collaborazione con il Comune di Viterbo, un evento culturale dedicato alle tante citazioni dantesche del territorio viterbese e dei suoi monumenti, e di fatti e personaggi che con la Città dei papi hanno diretta relazione.

Le note che seguono ne anticipano parte del contenuto, che ci auguriamo di esporre presto compiutamente, accompagnando le relazioni con la declamazione dei versi danteschi, non appena finita l’emergenza Corona virus, in una sede idonea della Città dei papi, e nella giusta cornice celebrativa.  

L’Alighieri scrisse il Sommo Poema negli anni tra il 1304-7 e il 1321, lontano da Firenze, dov’era nato. Nella Città del giglio aveva esercitato attività politica per oltre un decennio: consigliere del Popolo, poi componente del gruppo dei “Savi”, priore e più volte ambasciatore, era stato raggiunto nel 1301 dalla condanna al rogo in contumacia con la distruzione delle case e l’esilio, pronunciata dai nuovi governanti fiorentini.

La condanna l’aveva colto lontano da Firenze, dove non fece più ritorno, trovando rifugio a Ravenna, dove morì nel 1321 e dov’è tuttora sepolto.

Da Firenze i suoi concittadini l’avevano mandato a Roma, a colloquio con Bonifacio VIII, nel tentativo di placarne le mire egemoniche sulla città. Era accaduto che il pontefice, agitato per il clima fiorentino, l’aveva placato ricorrendo all’aiuto di Carlo di Valois, che al primo subbuglio cittadino, con un colpo di mano aveva preso il potere ed imposto un podestà.

Viaggiando lungo la strada per Roma, la vecchia via Cassia nei suoi tracciati di maggiore percorribilità, allora denominati via Francigena, Dante aveva visto certamente l’area del Bullicame, ad ovest di Viterbo, e le tante sorgive di acqua calda con le loro nuvole di vapore: un paesaggio inquietante, grigiastro e dai contorni sfumati, dove le presenze umane si profilavano come sinistre apparizioni.

Lungo il percorso, una sequenza di pozze fumanti, e tra queste, ruderi di imponenti strutture antiche (nella foto il Bacucco): vasti ambienti cupolati, alte pareti in opera reticolata, tratti di acquedotti. Ponti con arcate in conci di pietra accompagnavano la strada consolare nel suo percorso verso sud.

Ricordata da Marziale, Tibullo, Vitruvio, Seneca, la fumante pianura biancastra che si apriva fuori dalle mura della città, fu presa a modello dall’Alighieri per più di un’ambientazione della Divina Commedia.

Viterbo era stata, tra il 1257 e il 1281, sede pontificia al posto di Roma, scelta da Alessandro IV per allontanarsi dall’ostile clima romano di persecuzioni e sommosse. Il pontefice morì a Viterbo, e fu sepolto in duomo, in una tomba di cui si è persa la memoria. Protettore dell’ordine francescano, fu Alessandro IV, al secolo Rinaldo di Jenne (1254 – 1261) a far traslare il corpo di S. Rosa da S. Maria del Poggio nell’omonima chiesa, e che consacrò S. Maria in Gradi.

Dante nomina nella Divina Commedia cinque tra i papi che abitarono nella sede di Viterbo, o vi furono sepolti: Clemente IV, Nicola III, Adriano V, Martino IV, Giovanni XXI.

Durante la permanenza della corte papale a Viterbo vi furono nove conclavi. Il primo ad uscirne fu Urbano IV (al secolo Jacques Pantaleon 1261 – 1264), eletto in S. Maria in Gradi, che riportò per un breve periodo la sede a Roma.

Seguì Clemente IV (al secolo Guy Foucois, 1265-1268), amico di S. Tommaso e S. Bonaventura, che ricondusse la sede a Viterbo e fu sepolto in S. Maria in Gradi, in una tomba monumentale tardogotica opera di Pietro di Oderisio, trasportata a fine Ottocento in S. Francesco.

Dante lo cita nel III canto del Purgatorio, per il ruolo rivestito nella profanazione dei resti di Manfredi da parte del vescovo di Cosenza. 

Dopo la sua morte ci fu la più lunga elezione di un papa della storia, della durata di 1006 giorni, tra il 1268 e il 1271…

E in quell’occasione nacque il termine conclave ovvero “cum clave”, in ricordo della drastica misura che venne adottata per indurre il collegio ad esprimere il nome del nuovo pontefice.

Ne uscì alla fine Gregorio X (al secolo Tedaldo Visconti, (1271-76), vicino al rigoroso Bonaventura da Bagnoregio.

Fu poi la volta del domenicano Innocenzo V  (il francese Pierre de Tarentaise, 1276, sepolto a Roma in S. Giovanni in Laterano), seguito dal piacentino Vicedomino Vicedomini (Gregorio XI), che morì poche ore dopo l’elezione, e prima della sua proclamazione.

Sulla sua tomba, in San Francesco, lo Scriattoli riporta l’iscrizione che recita: “una petri solium lux feretrumque dedit” (lo stesso giorno gli diede il Soglio di Pietro e il feretro).

Il successivo pontificato, quello di Adriano V (1276, al secolo Ottobono Fieschi), durò soltanto un mese, ma la sua figura fu resa immortale dai versi di Dante, che ne parla nel XIX canto del Purgatorio, ai versi 99-105.

Il suo monumento funebre, attribuito ad Arnolfo di Cambio, si trova in San Francesco, in posizione simmetrica rispetto a quello di Clemente IV, al quale l’accomuna lo schema architettonico.

Al papa Dante attribuisce le caratteristiche di avaro pentito (che in realtà appartengono Adriano IV), in quanto, asceso al soglio pontificio, non vi aveva trovato né felicità né quiete, e si era reso conto della vanità dei beni terreni. Una volta capito di trovarsi di fronte ad un pontefice, Dante si inginocchia in segno di riverenza, ma Adriano lo invita a rialzarsi ricordandogli che nell’altro mondo le cariche terrene non hanno valore e che tutti sono ugualmente servi di Dio. 

Un mese e poco più prova’ io come pesa

il gran manto a chi dal fango il guarda

che piuma sembran tutte l’altre some

Per poco più di un mese provai quanto pesa il gran manto pontificale a chi lo vuole preservare puro dal fango, tanto che tutti gli altri pesi sembrano al confronto leggeri come piume…

Ma a cosa allude il pontefice quando parla di “preservare dal fango”?

Secondo la tradizione si tratta di una prigione posta a Viterbo, presso Ponte Tremoli, sotto lo sbocco di via Marconi su piazzale del sacrario.

Fino agli anni Trenta del Novecento difendeva questa parte di città una ripida parete di tufo sulla quale erano direttamente costruite le case e da cui, solo attraversando questo ponte si poteva raggiungere la sponda opposta.

Il palazzetto di tre piani che oggi vediamo vicino agli Almadiani, altro non è che la sommità della prigione: una costruzione di oltre trenta metri che si fonda molto più in basso, vicino al greto dell’Urciuonio, corso d’acqua il cui interramento novecentesco ha fatto sparire più di metà della sua mole al di sotto dell’odierna strada.

Temutissima per il buio e la malsana umidità, i detenuti desideravano morire piuttosto che sopportare le sofferenze inflitte da questo orribile carcere.

Dante la cita anche nel IX canto del Paradiso (52-54) a proposito di un terribile ergastolo da scontare in una prigione detta Malta, dove venivano rinchiusi i preti.

Piangerà Feltro ancora la difalta / dell'empio suo pastor, che sarà sconcia / sì, che per simil non s'entrò in Malta 

Dove l’“empio pastor” è il vescovo Alessandro Novello, colpevole di aver tradito, condannandoli ad essere giustiziati, tre fuoriusciti ferrararesi che a Feltre avevano trovato rifugio.

Nel latino medioevale il termine malta indicava il fango, la melma. E dunque molti studiosi identificano la “Malta” nella torre viterbese, per essere posta sulle rive fangose del vecchio corso d’acqua ora coperto. Ma la questione è ancora dibattuta.

Ma questi versi del IX canto del Paradiso sono riportati in una targa di ceramica collocata sul basamento della Torre dell'orologio di Marta, cittadina in provincia di Viterbo sulle rive del lago di Bolsena.

Dov’era dunque la prigione per ecclesiastici denominata "malta" citata da Dante?

La fonte storica alla quale attingono molti studiosi di Dante che collocano la "prigione Malta" nel lago di Bolsena è Benvenuto da Imola, uno dei primi e dei più autorevoli commentatori della Divina Commedia.

Malta è una torre orrenda, nel lago di S. Cristina, carcere amaro per i sacerdoti riconosciuti colpevoli di gravi delitti – scrive Benvenuto.

Seguendo queste parole, molti la collocano nell'isola Martana nel lago di Bolsena, altri in riva al lago, identificandola per assonanza con la torre del castello di Marta, altri ancora nell’isola Bisentina. Faceva parte della rocca costruita da papa Urbano IV (1261-1264), oggi scomparsa nelle ricostruzioni successive.

I lavori in corso sull’isola condotti dalla nuova proprietà, stanno rivelando particolari sconosciuti, delle strutture medievali e della cosiddetta “Malta”, che la tradizione identifica in una galleria scavata nel tufo sotto il monte Tabor.

Vi si accede per mezzo di un pozzo lungo 30 metri, esplorato nei recenti scavi, seguiti dalla Soprintendenza.

Dante cita ancora Viterbo, indirettamente, nel XII canto del Paradiso, ai versi 134-135, ricordando papa Giovanni XXI (il portoghese Pietro Ispano di Giuliano, 1276-7) che, dottissimo in teologia, filosofia e medicina, morì tragicamente nel 1277 per il crollo di un'ala del palazzo papale. Nel Sommo Poema lo menziona Bonaventura di Bagnoregio tra i dodici spiriti della seconda corona.      

Fu sepolto in Duomo, in un rude sarcofago. Alla fine dell'Ottocento l'ambasciatore del Portogallo fece realizzare un sontuoso monumento con bassorilievo, di recente sostituito da una più sobria sistemazione della lastra tombale.

Tra le figure di pontefici viterbesi che l’Alighieri colloca all’Inferno, c’è il “figliol dell’Orsa”, Niccolò III (al secolo Giovanni Gaetano Orsini, 1277-80), collocato tra i simoniaci, nella III bolgia dell’VIII cerchio, citato al XIX canto dell’Inferno. Tormentato dalle fiamme ai piedi, confessa di aver pensato più “ad avanzar gli Orsatti” che al suo ufficio ecclesiastico. Morì a Soriano nel Cimino, nel castello di famiglia.

Martino V (il francese Simon de Brion, papa dal 1281 al 1285) è invece ricordato nella cornice dei golosi. Voluto da Carlo d’Angiò, che intervenne indirettamente nell’ultimo conclave di Viterbo, fu incoronato ad Orvieto, che con Montefiascone, cittadina sul lago di Bolsena, divenne la sua residenza.

Nel XXIV canto del Purgatorio, ai versi 20-24, Dante ne descrive la faccia cosparsa da screpolature e ne ricorda la passione smodata per il pesce di lago, causa della sua morte per indigestione.

…e quella faccia / di là da lui più che l’altra trapunta / ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia / dal Torso fu, e purga per digiuno / l’anguille di Bolsena e la vernaccia

Un altro personaggio citato da Dante, morì e fu sepolto a Viterbo, in una tomba più volte spostata ed oggi mutila. Si tratta dell’arcivescovo di Pisa Ruggeri degli Ubaldini, morto nel 1295 e sepolto in S. Maria in Gradi. E’ citato nel celeberrimo XXII canto dell’Inferno, ai versi 12-13. 

La figura è legata all’episodio del conte Ugolino, avendolo condannato a morte per fame con i quattro giovani congiunti preda poi della sua fame.

La bocca sollevò dal fiero pasto / quel peccator, forbendola a'capelli / del capo ch'elli avea di retro guasto. Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli / disperato dolor che 'l cor mi preme / già pur pensando, pria ch'io ne favelli. / Ma se le mie parole esser dien seme / che frutti infamia al traditor ch'i' rodo, / parlar e lagrimar vedrai insieme. / Io non so chi tu se' né per che modo / venuto se' qua giù; ma fiorentino / mi sembri veramente quand'io t'odo. / Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino, / e questi è l'arcivescovo Ruggieri: /  or ti dirò perché i son tal vicino". 

Della sua tomba, forse una semplice lapide, si sono perse a più riprese le tracce, fino a tempi recenti.

Il sarcofago è nel chiostro della Verità, ora Museo Civico di Viterbo, ed è quanto rimane del monumento che gli fu eretto in S. Maria in Gradi dove soggiornava e venne a morte.

Smembrato, fu spostato dal convento fuori porta Romana durante i lavori per l’allestimento dell’Università della Tuscia, e deposto in frammenti nel loggiato del Museo.

Nel suo passaggio viterbese, l’Alighieri soggiornò con tutta probabilità dai minori conventuali, a San Francesco alla Rocca.

Fu in quel contesto che il poeta poté raccogliere suggestioni e informazioni di prima mano sugli ultimi istanti di vita di Adriano V, di Clemente IV e di Vicedomino Vicedomini (Gregorio XI).

Nella manifestazione che la Soprintendenza ha programmato saranno illustrati i monumenti sepolcrali dei personaggi sopra citati, senza omettere notizie sulla ricerca della misteriosa tomba di Alessandro IV, oggetto, di recente, di una vera e propria “caccia”, per ora infruttuosa.

Realizzati a poca distanza di tempo l’uno dall’altro, i sepolcri di San Francesco documentano l’evoluzione del tipo in area alto laziale.

Anche alla chiesa dell’ordine mendicante sarà dedicato spazio nell’evento programmato, per comunicare le novità emerse nella recente pubblicazione della prof.ssa Simonetta Valtieri.

Per la “Malta” verranno descritte le nuove acquisizioni conoscitive sull’isola bisentina, mentre per Martino V l’approfondimento conoscitivo riguarderà la residenza pontificale, oltre che la pesca e la cucina delle anguille.

La narrazione culminerà con le più celebri citazioni dantesche di Viterbo, in particolare dell’area termale lungo la via per Roma, che tanto dovette suggestionare l’Alighieri nel suo viaggio di ambasciatore.

Nel XII canto dell’Inferno, ai versi 115-20, Dante descrive un efferato delitto: quello di Enrico di Cornovaglia da parte del cugino Guido di Monfort.  

Poco più oltre il Centauro s’affisse / sovra una gente che ‘nfino a la gola / parea che di quel Bulicame uscisse. / Mostrocci un’ombra dall’un canto sola / dicendo: ” colui fesse in grembo a Dio lo cor che ‘n su Tamigi ancor si cola

Proprio mentre si stava svolgendo il più lungo conclave della storia, sostò a Viterbo un nobile corteo, guidato dal re di Francia Filippo III e da Carlo d’Angio, che doveva riportare in Francia il corpo del re crociato Luigi IX, morto in Tunisia. Ne faceva parte Enrico, nipote del re d’Inghilterra, che si suppone volesse trattare con il nuovo Papa l’incoronazione imperiale di suo padre Riccardo.

Guido di Montfort, cugino del principe Enrico, venuto a conoscenza del suo arrivo, volle vendicare la morte di suo padre - Simone V conte di Leicester - ucciso qualche anno prima dalle truppe del re d’Inghilterra. Il 13 marzo 1271, mentre Enrico di Cornovaglia assisteva, insieme agli altri nobili, alla messa nella Chiesa di S. Silvestro (l’attuale chiesa del Gesù, dove una targa ricorda l’accaduto) Guido fece irruzione uccidendo brutalmente il giovane a colpi di spada, non curandosi di risparmiare due chierici innocenti che gli fecero inutilmente scudo. Il cadavere fu trascinato fino alla piazza antistante facendone, si dice, macabro scempio.

Dapprima conservato presso la cattedrale di Viterbo, il corpo del giovane Enrico giunse in Inghilterra, e il cuore, collocato in una teca d’oro, fu posto “su una colonna in capo del ponte di Londra sul Tamigi”. Secondo altri cronisti il cuore, racchiuso in un vaso d’oro, venne invece posto nella mano della statua del principe nell’abbazia di Westminster.

Ma è nel XIV canto dell’Inferno (ai versi 79-80) la citazione più suggestiva del paesaggio termale viterbese.

Tacendo divenimmo là ‘ve spiccia /Fuor della selva un picciol fiumicello,/ lo cui rossore ancor mi raccapriccia./ Quale del bulicame esce il ruscello / che parton poi tra lor le peccatrici, / tal per la rena giù sen giva quello. Lo fondo suo ed ambo le pendici / fatte eran pietra, e i margini da lato: per ch’io m’accorsi che ’passo era lici

Dante paragona il ruscello che si dirama dal fiume di sangue bollente Flegetonte nel settimo cerchio dell’Inferno, quello riservato ai violenti, alle acque che escono dal Bulicame di Viterbo, “suggestionato dall’atmosfera cupa dovuta ai vapori delle acque sulfuree che scorrono tra argini di pietra calcarea talvolta rossastra” (https://www.caffeinamagazine.it/cartolina/424-l-inferno-dantesco-nelle-terme-viterbesi/).

Il poeta e Virgilio passano attraverso un deserto sabbioso (“rena arida e spessa”) camminando lungo gli argini di un fiume ribollente. Dante poeta descrive l’assetto geologico reale, caratteristico ed unico, evidentemente a lui noto, fornendo un’immagine chiara e immediata di quello che i due pellegrini si trovano di fronte.

I margini “induriti” descritti da Dante, sono i bordi delle vasche che naturalmente si generano, al contatto dell’acqua ricca di calcare con il terreno sabbioso, dando luogo alle tipiche incrostazioni

“Oltre al ribollire classico della acque, tipico di contesti solfurei, il poeta fornisce un'altra interessante evidenza. Descrivendo il fiume infernale, Dante afferm a che, come per il Bullicame, il fondo e i margini erano costituiti in pietra (“Fatt’era ’n pietra, e’ margini da lato”), quindi risultando cementati e duri se comparati ai sedimenti sabbiosi sciolti appena attraversati dai due pellegrini. In relazione a tali elementi, il famoso dantista Nicolino Sapegno considerava assurda l’interpretazione che i margini divenissero duri a seguito di incrostazioni depositate dal “ribollimento vermiglio”, ritenendo tale ipotesi non valida sul piano scientifico. Tuttavia questa sembra essere proprio la spiegazione corretta, dal momento che i margini litificati del Bullicame sono formati esattamente dalle incrostazioni di travertino idrotermale, con deposizione di carbonato catalizzato dall’azione di attività microbiale. Un riferimento così antico e importante alla formazione del travertino, da ricevere il plauso persino da uno dei padri della geologia dei carbonati, Robert L. Folk, che, riferendosi al passo dell’Inferno, lo definisce come “sicuramente uno dei primi esempi descritti di diagenesi dei carbonati”. Dante ci sorprende quindi ancora una volta, essendo più vicino egli con la sua poesia all’interpretazione reale del fenomeno che non i suoi moderni esegeti”

(https://www.geoitaliani.it/2016/02/dante-alighieri.html, di Marco Romano)

Le “peccatrici” sarebbero, secondo ipotesi recenti, non tanto le meretrici, ma le “pettatrici”, le donne che lavoravano la canapa.

Il Bullicame, acquistato dal comune di Viterbo dalla famiglia Gatti, ha costituito per secoli, e fino ad oggi, un bene collettivo, legato non solo alla proprietà del terreno, ma allo sfruttamento dell’acqua calda.

Alle relazioni tra la descrizione dell’Inferno dantesco con il paesaggio ad ovest di Viterbo è uno studio dello storico dell’arte Andrea Alessi, che si è dedicato all’esame dello sfondo della Pietà di Sebastiano del Piombo – il “Paese tenebroso” ricordato dal Vasari nella vita del pittore - dove ha riconosciuto le numerose citazioni della Divina commedia elencate in questo scritto. 

Ma sarà lo stesso autore a descriverlo nei dettagli…

E allora vi aspettiamo … per ascoltare e vivere Dante a Viterbo!

acqua ricca di calcare_Bulicame
acqua ricca di calcare_Bulicame

Bullicame
Bullicame

Il Bacucco
Il Bacucco
Isola Martana nel Lago di Bolsena
Isola Martana nel Lago di Bolsena
IX Canto Purgatorio presso Torre dell'Orologio a Marta (VT)
IX Canto Purgatorio presso Torre dell'Orologio a Marta (VT)
Palazzo Prigione_1
Palazzo Prigione_1
Palazzo Prigione_2
Palazzo Prigione_2
S.Francesco alla Rocca_Viterbo
S.Francesco alla Rocca_Viterbo
Tomba dell'Arcivescovo di Pisa Ruggieri
Tomba dell'Arcivescovo di Pisa Ruggieri
Tomba di Giovanni XXI
Tomba di Giovanni XXI
Torre del Castello di Marta (VT)
Torre del Castello di Marta (VT)
XIV Canto Inferno_il Bulicame
XIV Canto Inferno_il Bulicame

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