I pericoli di un romanzo sui ladri di cultura (recensione di D.Maras)

06/03/2021

la tomba pascucci
la tomba pascucci

È di qualche mese fa la pubblicazione di un nuovo romanzo del tarquiniese Enrico Renzi, già segnalato dal comitato di lettura del Premio Italo Calvino, destinato a scrittori esordienti, “per l’originalità della storia e soprattutto per la maturità di scrittura”. Il libro si intitola “La tomba Pascucci” e affronta nelle sue pagine una tematica che richiama la nostra attenzione: la piaga dei tombaroli che ha macchiato in modo infamante la storia della Tuscia, specialmente dalla seconda metà del Novecento.

In realtà (senza rivelare nulla ai futuri lettori), la trama raccontata da Renzi avrebbe potuto essere ambientata anche altrove, lontano da Tarquinia: dovunque esistano rapporti sociali e familiari tra persone che vivono di espedienti e non riconoscono il valore dell’onestà e della legge.

La scelta è caduta sui “bassifondi” di Tarquinia, presumibilmente perché più vicini ai luoghi in cui è vissuto l’autore, ma anche per un coraggioso esperimento antropologico: raccontare in sottofondo la vita quotidiana e le vicende di “una banda di farabutti” (i tombaroli appunto) “inventando nomi e fatti di sana pianta”, come chiosa l’autore stesso al termine della storia aggiungendo: “Spero che nessuno abbia avuto il cattivo gusto di immaginare che si stesse parlando proprio di lui”.

La famiglia Pascucci, attorno alla quale si dipana la trama, si presenta come una dinastia di tombaroli, ai quali vengono attribuite tutte le più tipiche caratteristiche di questa categoria di lestofanti.

Si tratta di individui truffaldini e disonesti, che vivono al margine della legalità, sfruttando la propria conoscenza del territorio come fossero cercatori d’oro o cacciatori di frodo. Sbruffoni e cialtroni che, nel raccontare le proprie scorribande notturne, gonfiano a dismisura le proprie scoperte e imprese, come se fossero pescatori al bar.

Vivono chiusi nella propria cerchia di parenti e amici e non si fidano di nessuno, ma sono convinti di saperne di più degli “archeologi” accademici. Si immaginano questi ultimi come figure lontane, dotate di poco spirito pratico, che raccolgono le briciole delle loro ricerche e che altrimenti non sarebbero in grado di scoprire alcunché. Anche per questo motivo, all’attività di scavo clandestino associano quella di falsari, sostenendo di essere in grado di ingannare persino gli esperti e millantando di aver realizzato pezzi famosi oggi finiti in mostra soprattutto nei musei stranieri.

Nel libro di Renzi, tutti gli stereotipi e le leggende dei tombaroli tarquiniesi vengono attribuite ai fratelli Pascucci: da una conoscenza dei luoghi che farebbe invidia alle guide aborigene alla capacità di produrre falsi quasi migliori degli originali e dall’illusione di essere discendenti ed eredi degli Etruschi alla truffa della tomba sigillata con un falso corredo funerario venduto a un compratore sprovveduto (di regola straniero).

La vicenda è raccontata dall’autore con uno stile del tutto personale, fatto di memorie ricorrenti, che si susseguono con il ritmo delle onde del mare, come una lenta risacca che spesso ripercorre gli stessi argomenti, aggiungendo ogni volta nuovi elementi utili alla trama. Ne consegue che la narrazione, perlopiù avvincente e fluida, diviene a tratti lenta e descrittiva, perdendosi nelle memorie del passato. Altre volte, invece, assume un ritmo brillante, che strizza l’occhio alla commedia tradizionale italiana, specialmente nei dialoghi coloriti caratteristici del dialetto laziale.

Mutatis mutandis, il lettore non potrà fare a meno di notare l’analogia con alcune opere di Camilleri, senza le quali oggi probabilmente non sarebbe possibile raccontare in modo leggero e scanzonato storie drammatiche di provincia, con l’uso spregiudicato del dialetto e il gusto per la narrazione storica di un passato che torna spesso a influenzare il presente.

Viene alla mente in particolare “Il cane di terracotta” (1996), dove il protagonista di una losca vicenda del passato è pure un professore di scuola, che si dibatte tra il desiderio di riscatto e il senso di colpa per l’appartenenza a una stirpe dannata di criminali. Lì si parla di mafiosi, qui di tombaroli: a qualcuno potrebbe sembrare un paragone eccessivo, visto che i secondi non ammazzano nessuno.

Ma è proprio questo il pericolo più grande: se i tombaroli vengono presentati come simpatiche canaglie—delinquenti, sì, ma che in fin dei conti non fanno male a nessuno—si ripete il gravissimo errore di credere che il furto di beni archeologici non sia un reato grave, specialmente se poi gli oggetti vengono recuperati o finiscono in qualche museo.

In realtà, la difesa del patrimonio culturale è un’azione che lo Stato compie nell’interesse di tutti. I proprietari dei beni archeologici sono i cittadini e non già uno Stato inteso come un’entità astratta: gli oggetti di interesse culturale (sia esso storico, archeologico, artistico o demo-etno-antropologico) non possono appartenere a chi li trova, né tantomeno essere oggetto di vendita e lucro, proprio perché si tratta di pezzi di storia e identità: risorse della comunità locale, mattoni dell’identità nazionale o addirittura, come nel caso di Tarquinia, elementi di interesse globale, riconosciuti dall’UNESCO come parte del patrimonio dell’umanità.

Quello che spesso non traspare nel sentire comune e a volte anche negli annunci di operazioni delle forze dell’ordine apparsi sulla stampa, è che i tombaroli non sono “cacciatori di tesori” (figure più o meno romantiche e avventurose, che l’immaginario collettivo associa a Indiana Jones), ma LADRI, che rubano alla collettività, di cui essi stessi fanno parte, pezzi di identità e ne fanno commercio.

Tutto ciò senza contare che il “recupero” di oggetti da parte degli scavatori clandestini distrugge i contesti archeologici in modo irreparabile, facendo sì che gli oggetti stessi perdano la maggior parte del proprio valore culturale. Se si potesse quantificare in denaro ciò che perdiamo quotidianamente per colpa di questi furti, si potrebbe dire approssimativamente che la restituzione all’Italia di un prezioso cratere attico a figure rosse, del valore diciamo di un milione di euro, è costata agli italiani la perdita di almeno dieci milioni di euro del contesto originario di cui faceva parte, grazie al quale avremmo potuto ricavare informazioni sulle persone che avevano acquistato, utilizzato e deposto quell’oggetto inestimabile e sulla storia del luogo in cui è stato ritrovato.

Fatte queste necessarie premesse, ci si può accostare senz’altro al romanzo di Enrico Renzi, che tutto sommato è piacevole da leggere e ricco di situazioni e personaggi interessanti. Probabilmente vale la pena di raccontare la storia picaresca e un po’ piratesca di un gruppo di delinquenti, per ricordare che sono esseri umani, meschini e inaffidabili, e sottolineare la vergogna di un nipote che è cresciuto con loro e nonostante tutto si trova a subire il loro fascino.

Tutto sta a ricordare che un crimine contro i beni culturali—sia esso un furto, un falso o un danneggiamento—è un crimine contro la collettività e non va mai giustificato: un ladro simpatico resta sempre un ladro.