Archeologia industriale. Quale futuro possibile per le Saline di Tarquinia?

19/04/2021

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Una corposa pubblicazione, ormai ventennale, della Soprintendenza allora denominata “per i beni architettonici e ambientali del Lazio” ha trattato il tema dell’archeologia industriale del territorio di competenza. Si tratta di ‘L’archeologia industriale nel Lazio. Storia e recupero’, edito nel 1999 da Fratelli Palombi editore e a cura di Marina Natoli.

Ma che cosa s’intende per “archeologia industriale”?

Non si tratta di reperti archeologici nel senso tradizionale del termine, ma pur sempre di “ruderi”, e come i primi testimonianza storica. Qualcuno li definisce ingiustamente “ecomostri” o “cattedrali nel deserto”, quando invece sono preziosi per la ricostruzione del nostro passato. Sono cartiere, stazioni ferroviarie, zuccherifici, fornaci, centrali idroelettriche, solo per fare degli esempi. Spesso abbandonati ma carichi di senso. Sono lì, immobili, eppure quasi ci parlano, pronti a darci lezioni emblematiche di attività produttive con la loro filiera di azioni. Anche questo è il fascino dei ruderi.

Gli esempi di archeologia industriale sono testimonianza visibile dei processi economici e sociali di un passato più o meno recente, e del rapporto delle popolazioni con le risorse del territorio nel quale hanno vissuto. Nel Lazio in particolare, evidenziava Paola Guerci nel volume, tali reperti raccontano il percorso di industrializzazione regionale e la sua tipizzazione.

Gli esempi più recenti sono “testimonianza storica rilevante” - come affermava Pio Baldi - dell’evoluzione della tecnica delle costruzioni, oltre che dell’architettura, mostrando talvolta raffinati ed aggiornati caratteri stilistici.

Nel libro ci si interrogava sul tipo di intervento da adottare su tali edifici. Meramente conservativo? Cosa e come restaurare? Come affermava Baldi è quanto mai vero, in ogni caso, che “la conoscenza e la catalogazione costituiscono il primo passo significativo per la conservazione e la salvaguardia della memoria storica”.

Nel testo ben emerge quanto l’archeologia industriale non sia definibile quale ‘scienza dell’antichità’, ma come ‘conoscenza documentata e criticamente valida, sia delle antiche civiltà che del complesso concreto delle opere che, anche in tempi recenti, hanno segnato l’evolversi e il modificarsi del paesaggio geografico e sociale’, secondo la descrizione di Maria Caterina De Cesaris. Nel territorio viterbese emerge una precoce antropizzazione, seguita da un’alternanza di fasi storiche importanti. Uno sviluppo industriale testimoniato inizialmente da mulini, carbonaie, cave, procoi, e culminato – tra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento - nella formazione del polo ceramico di rilevanza mondiale di Civita Castellana e nelle saline di Tarquinia.

L’industrializzazione nel Lazio è stata atipica, spiega Marina Natoli. Alcuni secoli orsono (tra 1400 e 1700) “le imprese non facevano parte di una politica programmatica governativa, ma dell’iniziativa di pochi attivi imprenditori di una certa importanza”, spesso esponenti di famiglie nobili e potenti (come gli Orsini a Bracciano). Iniziative rare, che venivano frequentemente avviate dalla stessa Camera Apostolica, perché necessitavano di finanziamenti ingenti. Una volta investito in esse, venivano affittate a privati che, a loro volta, le subaffittavano a conduttori. La difficoltà delle industrie a diffondersi è dovuta, in quei secoli, a fattori ambientali oltre che economici: era problematico soprattutto reperire materie prime, sia per l’inagibilità delle strade, che per i costi dei trasporti; spesso si trattava di vie impervie e percorribili solo a dorso di mulo.

Un importante momento fu quando nell’Ottocento, in regime napoleonico, il prefetto Camille de Tournon fece il primo censimento delle manifatture laziali con l’intento di favorirne lo sviluppo. Una seconda fase di slancio ci fu con la proclamazione di Roma Capitale, che segnò lo sviluppo dell’industria edilizia. Un ultimo progresso sarebbe arrivato nel Novecento.

Per concludere - faceva notare Giorgio Muratore - oggi abbiamo ex fabbriche (chiuse) che occorre valorizzare dal punto di vista architettonico e monumentale, ma anche paesistico, infrastrutturale ed ambientale. Una mappatura di tale archeologia industriale potrà aiutare a fissare la migliore forma di “‘riuso’ di quanto resta e testimoniare le tracce storiche del lavoro agricolo, delle attività estrattive e manifatturiere, delle infrastrutture di comunicazione e di servizio, che sono state alla base dell’economia regionale”, proseguiva Muratore. Necessaria è la protezione e il restauro di manufatti, strumenti, macchinari, per arrivare alle abitazioni operaie o ai corsi d’acqua. Scelte etiche ed estetiche per una nuova dimensione economica, culturale e sociale; proponendone un uso socialmente utile, ricostruendo la memoria storica dell’industria regionale e nazionale.

Spesso non è sufficiente apporre un vincolo per proteggere, salvaguardare, tutelare e valorizzare questi manufatti e i loro valori intrinseci, indispensabili per la società e la nostra cultura. Occorre sensibilizzare le popolazioni per far crescere il senso di appartenenza e di riappropriazione collettiva dell’insieme dei valori e dei significati che hanno i luoghi.

Ma se già alla fine degli anni Novanta era difficile far comprendere il valore di questi beni, nei due decenni trascorsi da questa pubblicazione la visione del tema è radicalmente cambiata. Le testimonianze di archeologia industriale sono adesso più a rischio. Volumi cospicui, la soluzione più facile è la loro sostituzione.

Spesso di proprietà privata, altre volte comunali o statali, il termine “rigenerazione”, che ben si adatterebbe ad operazioni che le ricomprendano, si traduce troppo spesso in proposte di demolizione e sostituzione con altro genere di manufatti, di facile commercializzazione.  Per questo pubblicazioni come quella della Soprintendenza, con la loro ricerca a monte ed i contributi di autorevoli studiosi, sono quanto di più utile e concreto possa porre le basi per la tutela. Non solo dei manufatti in sé ma della memoria collettiva che si portano dentro.